Inviare lettere discriminatorie, anche se private è razzismo – procurato allarme per l’Autorità e minacce aggravate da motivi di odio etnico, nazionale, razziale o religioso
QUINTA SEZIONE PENALE
ha pronunciato la seguente
RITENUTO IN FATTO
1. La corte di Appello di Trieste, con la sentenza del 9 marzo 2011, ha confermato la sentenza del Tribunale di Trieste del 17 settembre 2008 che aveva condannato ***** per i reati di procurato allarme per l’Autorità e minacce aggravate da motivi di odio etnico in danno dell’Istituto ***.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del proprio difensore, lamentandosi:
a) una violazione di legge in merito alla sussistenza della contestata minaccia difettando il soggetto passivo del delitto di minacce, che non può essere una persona giuridica;
b) un’ulteriore violazione di legge in merito alla mancata esclusione dell’aggravante delle finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso di cui all’articolo 3 della legge 205/93.
1. Il ricorso è inammissibile.
Si osserva, innanzitutto, con i motivi di ricorso risultino simili se non identici a quelli presentati in sede di appello e logicamente disattesi dalla Corte territoriale, per cui il ricorso sarebbe già affetto da una genericità ai limiti dell’inammissibilità.
2. In ogni caso, quanto al primo motivo correttamente i Giudici del merito hanno affermato la sussistenza del contestato delitto di minaccia, avendone ravvisato, quale soggetto passivo, il personale dell’istituto *** e quale elemento oggettivo di inserimento, nella lettera inviata all’istituto, di polvere bianca con riferimento alla sostanza tossica dell’antrace e delle frasi deliranti contenenti riferimenti di odio razziale ed etnico.
3. Quanto al secondo motivo, l’orientamento venuto sia consolidare nella giurisprudenza di questa Sezione e che non merita ripensamento è quello secondo cui, per la configurazione dell’aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso (D.L. n. 122 del 1993, articolo 3, conv in L. n. 205 del 1993), non sia necessario che la condotta di incriminata sia destinata O, quantomeno, potenzialmente idonea a rendere percepibile all’esterno ed a suscitare il riprovevole sentimento o, comunque, il pericolo di comportamenti discriminatori o di atti emulatori, giacché ciò varrebbe ad escludere la aggravante in questione in tutti i casi in cui l’azione lesiva si svolgono in assenza di terze persone (v. Cass. Sez. V 11 luglio 2006 n. 37609).
La circostanza aggravante in parola e configurabile, inoltre, quando essa si rapporti, nell’eccezionale corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza non avendo rilievo la mozione soggettiva dell’agente (v. la citata Cass. Sez. V 23 settembre 2008 n. 38591 nonché, di recente, Cass. Sez. V 29 ottobre 2009 n. 49694 e 28 gennaio 2010 n. 22570).
4. Il ricorso va, in via definitiva, dichiarata inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali e di una somma di denaro in favore della Cassa delle Ammende.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso le condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 6 marzo 2012.
il 21 maggio 2012